«   Scegliere un argomento non è semplice. Ce ne sono tanti, tantissimi.

E soprattutto, ogni argomento ha il suo pubblico. E ogni pubblico ha il suo argomento. Di cosa parlare qui? Con voi? A voi? Delle solite cose, no. Direi di no. Del rapporto tra giornalisti e mondo militare, oppure più banalmente di come si sostiene un’intervista o ancora di qual è il linguaggio da usare quando si parla con la stampa? Anche sì, perché no. Ma è più o meno sempre la stessa minestra e di zuppe più o meno uguali è pieno il mondo e soprattutto sono pieni i pulpiti, le lezioni, i discorsi. Carichi di cosa fare, anzi cosa dover fare.

Liquidiamo subito questi argomenti, dicendo questo: dal punto di vista pratico ci sono regole, è vero. Davanti ad una telecamera o davanti ad un giornalista bisogna comportarsi in un determinato modo e parlare di conseguenza in un altro altrettanto determinato modo. La compostezza, lo stile, è la virtù del militare – e di pochi altri, aggiungerei io – il linguaggio un po’ meno, spesso intrappolato in una serie di formalità e formalismi che ne peggiorano notevolmente la fluidità e diminuiscono spaventosamente la capacità comunicativa.

Diretti, semplici, non da manuale, non recitando un comunicato stampa, freschi: così dovete essere, così dovete rispondere alle domande. Senza tentennamenti. Ecco, la lezioncina è fatta.

Che rapporto non avete, ma dovete avere con la stampa? Ve lo dico subito, di sana amichevole sincera interessatissima diffidenza. La seconda parte della lezione è finita.

Ma il nodo centrale è un altro: sia nello stabilire un rapporto che – ovviamente – nel parlare o nell’atteggiamento, tutti noi esseri umani – e non solo noi, ma anche gli animali – e allora tutti noi animali, siamo portatori di un linguaggio. Diretto o in codice, lineare o da interpretare, comunque un linguaggio. Ed è qui la chiave. Ed è questo l’argomento di cui vi voglio parlare, in una chiacchierata che è un po’ ai limiti dell’accademia e totalmente fuori dal giornalismo, dove purtroppo non si discute mai di questioni identitarie, convinti di rappresentare tutti, essendo nessuno.

Sono molto critica nei confronti del giornalismo italiano, e non solo. Pensavo si trattasse di una categoria di persone serie, ma più che serie colte e ancora più che colte intelligenti. Mi sbagliavo. I giornalisti perlopiù non si fanno domande, sanno solo farle. E questo è un grosso limite. Naturalmente parlo per grandi sistemi, per categorie, non per teste, per persone.

L’argomento di cui voglio parlarvi è comunque – vi dicevo – la chiave di ogni rapporto, parola o gesto: il linguaggio. Potremmo discettare di filosofi e grandi pensatori, ma per rendere applicativo il nostro pensiero, per rendere produttivo questo tempo che passiamo insieme, miriamo al sodo.

Ogni cosa è raccontata e in ogni racconto c’è un modo di raccontare che può garantire trasparenza e veridicità ad un argomento o, al contrario, può mascherarla mille volte meglio di Arlecchino, senza far vedere maschera e costume di Arlecchino e cioè spacciando il falso per il vero. Il linguaggio è un’arte ed è un mistero. E sempre, in ogni ambito, saper fare e far sapere è il connubio perfetto. Comunicare.

La parola, allora, è il mezzo per eccellenza per dire il vero o il falso. E’ il mezzo che mi consente di modificare non la realtà, ma quello che deve essere percepito come reale. E’ il mezzo con cui posso riuscire a far sembrare giusto l’ingiusto e viceversa. E’ il mezzo con cui posso tentare di far sembrare brutto il bello e viceversa, anche se solo la fisicità di una verità a volte può avere forza oltre il linguaggio. La fisicità anche mentale, intendiamoci. Capite cosa voglio dire? L’evidenza evidente. Solo questa ha scritto sulla fronte il cartello “verità”. Solo questa? Ma davvero? O la comunicazione è capace di far fare una brutta fine anche a quel cartello e a quella fronte e a quella testa? La testa della verità.

Sì, la comunicazione ci riesce. A uno spirito attento e alto, a una mente aperta e lungimirante, ma soprattutto ad una mente libera è concesso di distinguere, ma è difficile. E l’indipendenza si paga. Anche nella mente scattano difese immunitarie che rigettano la verità, così, istintivamente, per istinto di sopravvivenza, nell’eterna lotta – direbbe Freud – tra principio di piacere e principio di realtà.  La relazione tra il potere e i mezzi di comunicazione riguarda le parole e il loro utilizzo, la semantica, l’uso di frasi e preposizioni e la loro origine. Riguarda a volte, paradossalmente, l’ignoranza, il non sapere. Perché il non sapere porta a “credere”, a imparare quello che ci vogliono insegnare, non dico passivamente, ma inconsapevolmente. Che forse è peggio. O siamo lì.

Nel rapporto tra il potere e i mezzi di comunicazione l’ignoranza gioca comunque un ruolo decisivo e ora ne parleremo. Ma c’è anche la cattiva fede e quindi la cattiva, falsata, interpretazione dei fatti. Quando si conoscono i fatti, la storia. La storia, una delle materie più difficili non da studiare, ma da capire. La storia, quella miniera di informazioni così utili – quasi strumentalmente necessarie – eppure così ammuffite tra libri dimenticati nelle biblioteche e professoroni con il cervello pieno zeppo di date. La storia.

I giornalisti conoscono la storia? Magari anche solo quella recente? Non sempre.  Se volete, la cattiva fede è almeno un gradino più in là, più sopra, lasciando perdere l’etica, rispetto all’ignoranza, ma capite che un giornalista, un comunicatore, uno che non sia un semplice volto, voce, macho o soave femminuccia, non può, non potrebbe permettersi l’ignoranza, perché sapere e far sapere è il suo lavoro. Perché c’è un codice etico. Perché questo devi fare nella vita tu, giornalista. Studiare, informarti per informare al meglio.

Quanto alla cattiva fede, fa parte del gioco, ma sarebbe – in realtà spesso lo è – ben distinguibile dalla qualità dell’informazione se il panorama generale fosse formato da persone intelligenti e indipendenti. Per fare degli esempi concreti possiamo passare in rassegna alcuni degli ultimi grandi eventi della nostra storia recente.

Vogliamo parlare dell’Iran? Della Libia e quindi di Gheddafi? Del Medio Oriente? Della cattura di Osama Bin Laden? Delle nostre, vostre, missioni internazionali di pace, una pace così sudata, in senso passivo: sudata da voi e sudata in se stessa, la pace, stanca di essere nominata, tirata, strattonata da tutte le parti, specie dove non c’è nemmeno l’ombra della sua esistenza, della pace appunto. Con la sorella democrazia, è una delle parole più abusate, nel senso di mal-usate in questo ultimo ventennio. Ecco, la pace. Qual è? Cos’è? E’ quella ristabilita in Iraq? O forse in Afghanistan? E voi, voi, siete soldati di pace in che senso? Portate la pace in groppa, nei carri armati, nei fucili, riempite i cannoni di fiori? Insomma, l’uso che si fa di questa parola è un uso di potere. Deve passare un messaggio che sia gradito al potere, qualsiasi potere. Non serve che sia democratico. Nessuno dice: portiamo la guerra, tanto che i più democratici del mondo hanno detto: portiamo la pace così poi arriva anche la democrazia, nostro prodotto d’esportazione. Non c’è nessuna visione ideologica del problema in quello che dico. Sottolineo però la non corrispondenza delle parole con i fatti, con la verità. E soprattutto devo sottolineare come il giornalismo mondiale – italiano non c’è dubbio – abbia bevuto la pozione della pace leccandosi i baffi. Quando non l’ha bevuta – errore grave – lo ha fatto per motivi ideologici, non intellettuali, anzi intellettivi, di semplice, pura, pura comprensione del problema e del contesto. Il linguaggio antico, religioso ad esempio, è mutuato su termini militari – soldati di Dio, mi viene in mente – oggi abbiamo invece così paura della guerra che facciamo il contrario: togliamo le parole di uso militare anche dal contesto bellico e lo infiocchettiamo di termini emotivi.

Al posto di pace non si poteva usare un termine tipo…stabilità? Certo che si poteva, ma comunica meno. Cioè non commuove. Meno, meno di commuovere, non coinvolge. E il consenso la politica, il potere lo crea coinvolgendo. E qui mi viene in mente un esempio lampante del nostro argomento: delle parole come strumento di potere.

L’Iraq come l’Afghanistan doveva essere territorio da conquistare non certo territorialmente, ma con una campagna di cuori e menti. Abbiamo usato questo termine milioni di volte parlando del rapporto con quei popoli come un avvicinamento a cuori e menti di quei popoli e cioè a sentimenti e culture. A parte il fatto che questo collide con molti altri aspetti che potremmo valutare, a parte il fatto che questo è anche vero in alcuni singoli casi, la conquista di cuori e menti – e l’ho vissuta personalmente la vicinanza e la capacità di penetrazione del mondo militare in determinate realtà umane, un’attitudine peraltro sincera -, a parte questo…lo sapete che questa frase, questo modo di dire è stato usato per la prima volta dai civili vietnamiti durante la Guerra del Vietnam? E noi, l’Occidente, non abbiamo perso la guerra in Vietnam? Sono parole che hanno dentro il senso della sconfitta, che sono state mutuate da una sconfitta perché ragione di forza – forse – di chi ha vinto. Bene, non bisogna usare questa dicitura? Cuori e menti? No, usiamola. Il problema è che non sappiamo del Vietnam…e che tutte le volte che questa frase è uscita dalla bocca di George W Bush ci siamo chiesti dove avesse letto una perifrasi tanto affascinante, quale analista gliela avesse suggerita. I vincitori, gliel’hanno suggerita. I vincitori del Vietnam, capaci di vincere perché capaci di farla quella cosa lì, quella conquista di cuori e menti.

Ecco la ricerca del consenso cos’è: una verbosa trappola che il giornalista dovrebbe essere in grado di scoprire, dipanare, smascherare.

Il contesto israelo-palestinese ci offre centinaia di circostanze linguistiche in cui l’impiccio con questa parola “pace” crea anche impaccio. Si parla di processo di pace perché lì nessuno porta la pace, ma si sta auto formando e nei decenni diventa sempre più pacifica questa pace, tanto che non si sente né si vede. E’ facile ironia, questa. Ma anche il Medio Oriente è un bacino per la lingua, fonte di neologismi condivisi da giornalismo e potere in modo tacito, tanto da sembrare naturale. Road map, ad esempio. Questa mappa, questo percorso, questo bisogno di calendarizzare nella lingua qualcosa che purtroppo non c’è al di là della forma, della parola, delle parole tutte insieme, appunto.

Un altro termine che, per altri aspetti, mi pare incredibile è “insurgents”. Attenzione, parlo della lingua italiana non della lingua inglese. In inglese ci sta, in italiano no. La connotazione neutra c’è in entrambe le lingue, ma la traduzione “insorgenti” in italiano non viene benissimo. E io, che non sono una purista della lingua ma detesto queste inutili contaminazioni visto che la nostra lingua ci offre parole per dire tutto senza mutuare niente altrove, non capisco chi siano questi insurgents. Sembra – pensateci – che non si voglia dire terroristi, ma nemmeno resistenti. Nemici, ma nemmeno amici. Insorgono, come i funghi, esplodono dalla terra senza connotazioni, motivi, perché. Gli esseri umani non sono funghi. Insurgents garantisce al potere e al giornalismo quella pseudo obiettività che gli è richiesta a gran voce e che difficilmente riesce a fornire. E’ una parola brutta e cattiva? No, non sempre. A volte è davvero funzionale alla narrazione e cioè quando davvero non si riesce a dare un’identità definita a quelli che definiamo appunto insurgents, ma a volte non è così, specie nelle dispute che pochi anni or sono – a ridosso dell’11 settembre e per qualche anno – si sono aperte e che sono arrivate fino a coinvolgere magistrati sul significato delle parole talebano, resistente, terrorista, aggressore, nemico e così via. Si potrebbe parlare all’infinito.

Analogamente, “Af-Pak” è un acronimo adesso usato dai cronisti, mentre originalmente fu usato dal dipartimento di stato statunitense, nel giorno in cui Richard Holbrooke fu nominato rappresentante speciale degli Stati Uniti per Afghanistan e PakistanAf-Pak evita la parola India, cancella totalmente la tragedia del Kashmir. Politicamente corretto – nel senso machiavellico del termine – giornalisticamente è scorretto. Quando noi giornalisti usiamo la stessa frase, Af-Pak, che fu creata sicuramente per noi giornalisti, stiamo facendo il lavoro del dipartimento di stato americano. Gli esempi si moltiplicano.

Vogliamo parlare delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein? Armi di distruzione di massa. Armi, passi… ma di distruzione di massa no. Occorre una guerra. E occorre subito. E tutto il mondo ha sentito parlare di queste armi di distruzione di massa, che nessun giornalista si è sognato di chiamare diversamente, tanto suona bene, terribile, minaccioso. Addirittura armi di distruzione di massa è diventato di uso tanto comune da essere abbreviato in ADM, tipo Consiglio di amministrazione, Cda, parole usatissime e mai logore.  Nel caso Iraq il giornalismo mondiale – tranne le solite eccezioni che fanno la solita regola – ha dato per scontato che le armi di distruzioni di massa ci fossero davvero e ha solo imparato a chiamarle armi di distruzione di massa. Ha fatto da megafono al potere, senza quasi accorgersene, già distrutto, in massa, il giornalismo privo di capacità d’inchiesta o quantomeno di dubbio. Le ADM sono un argomento plausibile anche quando si parla di Iran, ma il linguaggio del potere cambia, come quello giornalistico. Rischioso, l’Iran. Grandi titoloni sulle sparate di Mahan che vorrebbe cancellare Israele dalla cartina geografica, titoli ad effetto che lui fornisce amabilmente tutti i giorni. E che anche il Dipartimento di Stato si affretta a fornire, lanciando strali e promettendo tempesta. E noi dietro, non a raccontare, ma a riportare le frasi dell’uno e dell’altro.

E la Siria? Qual è il linguaggio che usano i media sulla Siria? Preoccupazione, sconcerto, vittime, repressione del regime…ma che occorra un intervento internazionale lo scrivono in pochi, mentre nel caso Libia era diventata un’ossessione dopo poco tempo da questa cosiddetta primavera araba. Come mai? Forse i politici non l’hanno detto e quindi anche i giornalisti non lo hanno detto? E chi è in Siria a raccontare la Siria da dentro? Ora, in questo momento, pochissimi giornalisti da tutto il mondo. La Libia è stato un esempio di potere mediatico e delle parole, dall’inizio alla fine. Da quando il pittoresco capo di un Paese è diventato un orco cattivissimo. E’ successo in un baleno. Perché quando Gheddafi venne in Italia, poco fa, non solo da Berlusconi – come avrebbe fatto chiunque altro -, ma tutti i giornali lo hanno accolto e raccontato senza nessun sentore che fosse quell’orrido tiranno che si è rivelato.

Le parole si sono trasformate improvvisamente, hanno ricalcato quelle del potere contro Gheddafi, che, cattivo, se lo era, lo sarà sempre stato. No? Che dire di come la stampa internazionale e italiana ha trattato la sua morte? Sono rimasta molto scandalizzata da come nessuno abbia detto a chiare lettere che si è trattato di vilipendio di cadavere. Sono rimasta indignata dai frame proposti da siti e – lo dico – televisione: la morte minuto per minuto, trascina trascina, soffri soffri, bestia tra le bestie. E poi muori, e ti voglio vedere. Un po’ come è successo a Saddam, impiccato in diretta mondiale. Allah Akbar e giù, un tonfo e il buio. E tutti a guardare.

Ma le parole servivano per dire che il vincitore che ha bisogno di straziare il proprio nemico è un primitivo che usa la clava al posto del cervello, da compatire. E le parole, nel caso di Gheddafi, erano fatte apposta per dire che, di vilipendio di cadavere, si è trattato. E’ legge, non morale, etica, pietà cristiana. E poi comunque non ho mai visto una primavera con tanti morti e nemmeno una primavera in cui i fiori migliori, i più grandi e colorati, i più forti – noi – si accaniscono contro quel che rimane di poco più o poco meno di un petalo: Gheddafi. L’hanno detto i giornali e i giornalisti? Ma no, salvo pochissime eccezioni, che confermano la solita regola.

Il linguaggio usato per Osama Bin Laden, poi, è stato un vero esempio di incontro tra potere e media, direi fusione. Intanto, anche in questo caso, qualche dubbio sul fatto che il corpo di questa persona è scomparso e dicono gli Stati Uniti che l’abbiano sepolto in mare ma non si sa dove, andava sollevato. L’avessi fatto io si tratterebbe di occultamento di cadavere. Beh…non l’ho fatto io, ok, però un minimo spirito critico, minimo, minimo. Ma quel che è più interessante dal nostro punto di vista è proprio tutta la comunicazione che c’è stata intorno a questo fatto. La descrizione del blitz, il non detto (che non è stato indagato dai giornalisti, ma è rimasto il benedetto non detto), la mancanza totale di informazioni aggiuntive rispetto alla versione ufficiale e l’immagine che si è creata del personaggio. L’unico video passato ritrae Bin Laden quasi di schiena davanti alla tv, non so se sia stato trovato a casa sua o addirittura girato, ma non importa ai fini del nostro argomento. Il punto è che tra le scarsissime notizie diffuse su Bin Laden ce n’erano due che mi hanno fatto capire perché era uscito quel video: Trovato viagra nel covo di Bin Laden, trovato materiale pornografico. Ecco, si distrugge anche così un mito. E passi per Obama, che è lì a fare il suo mestiere, ma a livello giornalistico è possibile che un’altra volta siamo stati cassa di risonanza di un messaggio così chiaramente falsato…possibile che abbiamo messo a disposizione, magari senza quasi accorgercene, le nostre penne, teste e parole senza capacità critica? Così è.

Certo, cambia, girando il mondo l’atteggiamento cambia. Nella redazione di Al JAzeera interantional, a Doha, ho visto passare a un metro da me – e l’ho ovviamente braccato – Sheik Sharif, capo delle corti islamiche somale, ricercato ovunque. E’ chiaro che in quella redazione, l’Iran, l’Iraq, l’Afghanistan, la Libia, ma ad esempio molto più estesamente l’Africa vengono trattate in modo diverso, forse un po’ piegato verso un altro potere, pure sempre potere, ma con una forza ideale più forte. Forse l’antichità, la storia, un’altra volta, ci fornisce gli strumenti per capire.  Il logos, tutto sommato, è stato sempre protagonista indiscusso dell’oratoria. Presso i greci con DemosteneIsocrate e Lisia, a Roma ebbe con Catone e Cicerone. Ogni discorso aveva uno scopo ben preciso: si utilizzava l’orazione giudiziaria in caso di accusa o di difesa; la forma epidittica o dimostrativa si basava su discorsi pubblici in occasione di cerimonie e festività per commemorare persone defunte o per elogiare uno o più cittadini; infine, al genere deliberativo appartenevano le orazioni con finalità politiche. Così la pratica forense, sbaglio? E la grande questione della parola come strumento di potere va da Aristotele a poi MachiavelliGramsci e così via. Per questo la propaganda politica è ed è sempre stata importante, ma è quelle mediatica – in questa società così formulata – a diventare devastante per forza e intensità. Prima c’era l’oratoria, ora c’è tutto, tutto quello che fa sapere tutto a tutti e subito. Non è cambiata la sostanza, sono cambiati i mezzi, i tempi. Il modo di comunicare e la velocità nel comunicare. E anche quindi la quantità di informazione è aumentata vertiginosamente, al di là delle esigenze e della volontà reale di chi vuole essere informato. Io ti informo e basta, in ogni modo.

Il cuore del problema è antico quanto l’uomo. Le parole son sempre servite al potere, anche a quella democrazia, alla democrazia, per così dire inventata da Clistene, che difese sul suo nascere interessi aristocratici. E ricordiamo anche le parole di Pericle su caduti “per la difesa della democrazia”, splendide nella loro retorica suadente, ma mistificatorie. La “democratica” Atene, per non dire altro, avrebbe poi schiacciato la democratica Delo, che voleva solo farsi neutrale nello scontro tra le due capitali elleniche. Nella storia della parola, del parlare e dell’oratoria è scritta anche la storia della ricerca del consenso.  Anche nel mondo antico lo strumento primo della costruzione del consenso era la parola ed è soprattutto qui la ragione del lungo studio che se ne fece, in particolare delle tecniche con cui si otteneva la persuasione. La retorica fu un’arma politica solo apparentemente impropria. Si pensi a Gorgia, e a Protagora. Entrambi pongono l’attenzione sulla questione linguistica e retorica (come d’altronde faranno poi un po’ tutti i sofisti). Il primo ci dice che è inutile cercare una verità univoca ed assoluta, anche se però non è sbagliato tentare di mettersi d’accordo stabilendo l’utile comune. Non esiste pertanto un quadro di valori etici definibile in modo assoluto, quanto piuttosto un relativismo (di società in società, si potrebbe dire). Ora, se non esistono dei valori “veri”, al sofista spetta il compito di promuovere quelli della sua società per mezzo del sapiente uso delle parole. Introducendo il concetto di utile Protagora dà avvio alla retorica. Gorgia considera il linguaggio un potente mezzo persuasivo ed ingannevole (apàte) col quale gli è possibile parlare di ogni cosa persuadendo il pubblico, senza peraltro avere l’obbligo di promuovere dei valori. Ecco confermato quello che abbiamo detto fin qui, confermato certo a livello filosofico, di pensiero, concettuale. Confermato come attitudine umana, come modo di essere, come essere dell’uomo.

La parola è come le mani, le gambe, il pancreas o le orecchie: serve a qualcosa, a comunicare e, in un certo ambito, a comunicare determinate cose in un determinato modo e non in un altro. Serve a cercare, ma anche a creare consenso.

Anche la guerra, d’altronde, è una forma di comunicazione tra due avversari. Una forma di comunicazione su due livelli: quello del confronto di volontà tra almeno due avversari, che perseguono con la forza due obiettivi concorrenti. E quello della prova di forza, cioè degli esiti ottenuti con l’impiego della forza, che non possono essere mai isolati dal contesto in cui si opera. La guerra non è un fenomeno tecnico-militare, ma politico-sociale: l’impiego della forza non è che uno degli aspetti della “grande strategia” o “strategia globale” che viene perseguita, e non può essere presa in considerazione indipendentemente dagli altri.

Esempio: uno dei principali successi conseguiti dall’Occidente nella guerra fredda fu quello di essere riuscito a inserire negli Accordi di Helsinki del 1975, la libertà di informazione in cambio del riconoscimento delle frontiere prodotte dal secondo conflitto mondiale, (che l’URSS desiderava fortemente). Essa contribuì, in modo difficile da valutare ma sicuramente rilevante, all’erosione e quindi al collasso dell’impero sovietico interno ed esterno e alla fine della guerra fredda. Anche questo risultato non rappresenta un fatto nuovo nella storia.

Già nel XIX secolo, in Europa Continentale, le agenzie di stampa divennero uno strumento importante della politica estera; erano collegate ai governi ed influenzate da essi, che se ne servivano per diffondere comunicati, per far conoscere le proprie intenzioni, e per sviluppare un’azione di informazione, disinformazione e manipolazione in favore dei propri obiettivi. Un esempio “classico” è rappresentato dall’agenzia Prima Press, costituita in Francia dalla Germania nazista, ma utilizzata anche in Italia, che svolgeva un’azione di informazione funzionale agli interessi e alle politiche di potenza dell’Asse.

In alcuni saggi questo potere del giornalismo lo chiamano soft power, dolce potere, tenero potere, soffice potere? Potere.  Che agisce sempre in combinazione con l’hard power, secondo meccanismi estremamente complessi e imprevedibili. Cioè il potere politico ed economico. C’è da dire – e lo dico da dentro il sistema – che attualmente, circa l’80% dell’informazione è televisiva. Nella comunicazione televisiva dominano le immagini, il cui impatto sulle percezioni del pubblico è ben diverso da quello della comunicazione scritta o parlata. L’immagine è parola senza parole. E anche con le immagini si possono fare i giochi di prestigio.

Lo sviluppo delle comunicazioni attraverso Internet è in netta espansione e presto sostituirà tutto, tutto il resto.  Aumenteranno dissonanza cognitiva e autoinganno, ne sono certa. In altri termini, si tenderà a credere solo a ciò che corrisponde ai propri preconcetti e alle proprie convinzioni, e la selettività del mezzo interattivo consente addirittura di eliminare tutto quanto se ne discosta. Su internet faccio una ricerca e quindi cerco quello che voglio, solo quello. Condizionata magari da chissà quanti messaggio subliminali che il potere ha preparato per me e che, così, liquidamente, mi invadono.

E’ vero – al di là di internet – che la televisione di massa resterà il medium fondamentale ancora per qualche decennio, e che i grandi networks televisivi continueranno a dominare il mercato mondiale dell’informazione. E la tv è ora e sarà sempre di più allall news, 24 ore su 24 perché se stiamo un’ora senza sapere tutto potremmo trovarci a piantare barbabietole in Iran o a spalare neve a Helsinki. Credono, in molti. Il tempo reale e la disponibilità continua di notizie per tutte le 24 ore e per tutti i giorni dell’anno, creano, comunque un’accentuata competizione tra le varie reti per catturare maggiore audience, in una continua corsa contro il tempo. Sebbene ciò non rappresenti un fatto del tutto nuovo, questo fatto ha assunto una rilevanza sconosciuta in passato. Vorrei concludere leggendovi una pagina, meglio degli spezzoni, di un testo che ho trovato davvero interessante e che mi ha suggerito il generale Carlo Jean. Da Manuale di geopolitica, Laterza 2003.

“Sono diventati classici gli esempi della strategia comunicativa seguita dalla Slovenia nel 1991, nella sua “drôle de guerre” con Belgrado, quella attuata durante la guerra del Golfo del 1991 e quella del conflitto per la crisi del Kosovo nel 1999. Le notizie-slogan, lanciate all’ultimo momento, facevano titolo ma erano incontrollabili e non potevano neppure essere criticate perché venivano cancellate dal rapido flusso di notizie successive. Lo stesso effetto si realizza in misura forse ancor più delicata e determinante, nella guerra al terrorismo, in cui l’assenza (peraltro più che giustificata) dei giornalisti dal teatro delle operazioni afgano ha consentito ai responsabili americani delle informazioni di sommergere letteralmente i media con immagini tempestive e spettacolari ma non significative. Ha anche permesso di proteggere le emotive opinioni pubbliche occidentali dalle immagini di soldati morti, di cui infatti non se ne è visto neppure uno. Sotto tale aspetto, è indubbio che gli USA siano stati influenzati dalle disastrose esperienze fatte a Mogadiscio otto anni prima. In definitiva, la vera rivoluzione dei media non si è consumata in Vietnam ma nel conflitto del Golfo, del Kosovo e oggi in quello dell’Afghanistan, dove i responsabili politici e militari hanno ripreso il controllo sull’informazione – se non a scopo manipolativo, almeno per evitare emergenze comunicative che provocherebbero nell’opinione pubblica reazioni negative scatenate dai meccanismi intrinsechi al mondo della comunicazione”.

Tutto quello che abbiamo detto, che ho detto, non è successo negli ultimi dieci anni, ma negli ultimi 10 anni si è molto accentuato. Gli avvenimenti dell’11 settembre hanno reso gli Stati Uniti consapevoli di essere molto più impopolari di quanto credessero, non solo per ciò che fanno ma anche per quello che sono. E per quello che non sono.  Le cose che abbiamo detto sono forse anche banali, ma queste sono. Forse una civiltà diversa, una cultura diversa, gli antichi romani – ad esempio – ci riderebbero sopra, tanto è scontata l’ipocrisia e la convenzionalità e del linguaggio e del potere. Ma noi siamo moderni e quindi vogliamo o dobbiamo vivere questo tempo e questa società a volte facendo finta di non sapere, fingendo di non accorgerci di quanto siamo manipolati per avere forse, a nostra volta, la capacità di manipolare. In ogni caso, è stato un piacere parlarne a voi, in libertà. Perché voi siete una categoria cardine del sistema, voi ognuno di voi, non il sistema militare. Voi – ognuno di voi (come noi, ognuno di noi giornalisti) ha il potere individuale di conoscere e diffondere notizie vere. L’alternativa è non diffonderle. La via di mezzo, la menzogna, no. E’ una questione etica, ma anche – per me – intellettuale. E’ troppo stupido dire bugie, meglio tacere. Mentire inganna. E il peccato è uno. Che il potere – come la parola – inganna (è in caso di dirlo) chi non ce l’ha. Solo chi non ce l’ha.   »